Una corona al servizio della Rivoluzione:
Carlo Alberto di
Savoia
e lo Statuto (1848)
di
Subalpinus
Indice
2. Carlo Alberto era carbonaro?
4. Carlo Felice e Carlo Alberto
5. La risoluzione del
Re
6. L’Austria e la
questione della successione sarda
7. Il Congresso di
Verona (settembre-dicembre 1822)
8. Il giuramento di
Carlo Alberto (1824)
9. L’incontro di Genova (1825)
10. Carlo Alberto Re di Sardegna (1831)
11. Carlo Alberto e la religione
12. La ‘cospirazione’ italiana e Carlo Alberto
13. Rivoluzione ‘culturale’ in Piemonte
14. Trame nell’ombra
15. Carlo
Alberto getta la maschera
16. Carlo
Alberto e Pio IX
17. Carlo
Alberto caccia Clemente Solaro de
18. Carlo
Alberto e le prime riforme liberali
19. Carlo Alberto si fa Re costituzionale
(febbraio-marzo 1848)
20. La giornata del 7 febbraio 1848
21. La giornata dell’8 febbraio 1848
Il lungo dominio napoleonico
aveva non solo permesso la diffusione in tutta l’Europa continentale delle idee
rivoluzionarie, ma anche creato una nuova classe dirigente. chi si era arricchito con i beni
confiscati alla Chiesa, i funzionari dell’amministrazione e gli ufficiali del
disciolto esercito, numerosi dei quali iscritti alla massoneria, erano tutti
tendenzialmente ostili alla Restaurazione del 1815.
Molti si
adattarono in fretta al nuovo ordine di cose e rientrarono nei ranghi; altri
invece, sebbene divisi e discordanti, cominciarono subito ad operare per rovesciare
i governi da poco restaurati, adottando unanimemente come strumento di lotta
politica la cospirazione, la congiura ed il terrorismo.
Le sette e le
società segrete, figlie della massoneria, si diffusero a macchia d’olio. La più
nota di esse,
i moderati la ritenevano conseguibile
con l’instaurazione di monarchie costituzionali,
che garantissero i princìpi sostanziali del credo rivoluzionario (indifferenza
dello stato verso la religione cattolica con la parificazione giuridica dei
culti, istruzione pubblica gestita dallo Stato, libertà di stampa, introduzione
del regime parlamentare, dominato dalla fazione liberale, come contrappeso
all’autorità del principe ecc.) mentre i neo-giacobini preferivano la forma di
governo repubblicana, che volevano integralmente atea, e perseguivano in campo
sociale un programma di stampo socialista.
Uno degli
elementi ideologici del programma settario, ereditato dalla Rivoluzione del
1789, era il nazionalismo, l’idea,
cioè, che i popoli dovessero emanciparsi dalla tutela delle antiche dinastie
legittime per costituirsi in stati nazionali. Tale principio, tuttavia, se
attecchì particolarmente in Italia, data la sua condizione politica, non fu mai
quello essenziale del credo settario, poiché, come vedremo, i moti carbonari
più importanti dell’età della Restaurazione presero il via proprio dalla Spagna
e dalla Francia, due nazioni che da secoli avevano portato a compimento
l’unificazione nazionale.
Altro elemento
importante nella strutturazione delle trame settarie fu l’internazionalismo,
il fatto, cioè, che tutti i rami del settarismo europeo fossero legati più o
meno strettamente l’uno all’altro, secondo un piano organico e una comune
regia. Così le cospirazioni, una volta venute alla luce in un luogo, come
d’incanto, nel giro di poco tempo, si propagavano alle altre parti d’Europa.
Il 1° gennaio del
L’esempio
spagnolo ebbe ripercussioni anche in Francia, dove un settario pugnalò a
morte il Duca di Berry (1778-1820) nipote del Re.
Nel luglio il regno delle due Sicilie fu
investito dal vento rivoluzionario. A Nola alcuni reparti militari insorsero,
seguiti da altri in Lucania e Puglia, alla cui testa si pose il generale Guglielmo
pepe (1783-1855) un vecchio
ufficiale napoleonico, ora aderente alla Carboneria. Il 13 luglio il Re decise
di concedere una Costituzione modellata su quella spagnola. A Palermo, due
giorni dopo, il 15, i settari inscenarono una sommossa, guidata da Florestano
Pepe (1778-1851) fratello di Guglielmo.
Il facile successo della cospirazione nel
sud, e le notizie che provenivano dal resto d’Europa (in agosto anche in
Portogallo si rividero simili scene) misero in fibrillazione i carbonari
dell’Italia centrosettentrionale, desiderosi di passare all’azione, prima che
l’Austria, garante dell’ordine nella penisola, intervenisse con le sue armate.
La setta puntò
soprattutto sul Piemonte.
2. Carlo Alberto era
carbonaro?
Prima di narrare la
rivoluzione piemontese del 1821, occorre dire qualcosa sulla figura di Carlo
Alberto, Principe di carignano
(1798-1849). Carlo Alberto apparteneva ad un ramo collaterale della Casa di
savoia. Tuttavia, poiché sia il
Re Vittorio Emanuele 1° che il fratello Carlo Felice, già avanti negli anni,
non avevano figli maschi, il loro giovane nipote era destinato a salire sul
trono del Piemonte.
Il Carignano aveva ricevuto un’educazione
liberale, e, quindicenne, era entrato nell’esercito bonapartista. Al momento
della Restaurazione, Carlo Alberto non nascose la sua insofferenza per il clima
austero e profondamente religioso che regnava alla corte sabauda. I suoi amici
più stretti erano tutti o quasi in odor di massoneria o carbonari. La sua
partecipazione attiva ai moti del 1821 sembra già una prova decisiva della sua
affiliazione alla setta.
Scrive “
“Le
tendenze anzi le aspirazioni di Carlo Alberto al nuovo ordine di cose, cominciato
e sparso in tutta Europa dalle glorie napoleoniche, avevano una origine antica
e conosciuta. Né poteva incontrare altrimenti a chi nella sua prima età si era
cresciuto ad esempi di genitori, che avevano salutato nelle piazze di Torino
l’albero della libertà repubblicana; poi si educava alla libera in Parigi e in
Ginevra, e appena quindicenne indossava la livrea dell’ufficiale napoleonico.
Le impressioni lasciate nell’animo dalle glorie e dallo spirito di quell’uomo,
che fu Napoleone, erano di uno stampo tale che non si cancellavano più mai, chi
li avesse accolte una volta, massime in età giovanile e con una tempra d’indole
come quella che avea sortito il principe di Carignano. Accolto nella reggia
torinese subito dopo
1. Carlo
Alberto, dopo i moti carbonari del 1821, scrisse un Memoriale per discolparsi e
dissipare ogni ombra sulla sua condotta. Egli scrive: “Je fus
accusé de carbonarisme…”. Tuttavia nella risposta non smentisce categoricamente l’accusa, ma
semplicemente, cambiando discorso, sottolinea il suo ardente desiderio di
cacciare gli austriaci dall’Italia del nord.[ii]
2.
Crétineau-Joly, il più noto e documentato studioso cattolico dell’Ottocento sul
fenomeno settario, nell’opera L’èglise
romaine en face de la révolution, scrive che il carbonarismo propose
i suoi progetti d’indipendenza italiana al Principe di carignano e che “le proposte accettate da Carlo Alberto
di carignano furono, dopo il
1820, indirizzate a tutti i prìncipi di cui si poteva supporre la debolezza e
l’ambizione” [iii].
Lo storico francese, inoltre,
nel medesimo testo, cita una lettera di un ebreo, fondatore della Vendita
carbonara del Piemonte, noto sotto lo pseudonimo di Piccolo Tigre, lettera
datata 18 gennaio 1822:
“L’Alta
Vendita desidera che, sotto un pretesto o un altro, s’introducano nelle Logge
massoniche il maggior numero di prìncipi e di ricchi possibile. I prìncipi
delle casate sovrane, ma che non hanno speranza legittima d’essere re per
grazia di Dio, vogliono esserlo per grazia della rivoluzione. il Duca d’Orléans è framassone, anche
il Principe di Carignano lo fu… adulate questi ambiziosi d’essere
popolari…Fatene dei massoni. La loggia li condurrà al carbonarismo…le Logge
formano a loro insaputa il nostro noviziato preparatorio… i borghesi vanno
bene, i prìncipi ancora meglio, purché questi agnelli non si cambino in volpi,
come l’infame Carignano.”[iv]
Crétineau-Joly
tuttavia non scrisse tutto quello che sapeva. Secondo l’anonimo estensore de “
3. Giorgio
Briano, nella sua biografia del marchese carbonaro Roberto D’Azeglio, ricorda
come questi, legato a Carlo Alberto da stretta amicizia, ricevette l’ordine di
guadagnarlo alla setta. “E Azeglio – scrive il Briano, che seppe i
ragguagli dalla viva voce del marchese – non isdegnò il difficile incarico,
posciaché, ritiratosi fin dal 1815 dal servizio militare, non vedeva altro modo
di adoperarsi efficacemente per una causa, che stava in cima a tutti i suoi
pensieri. Infatti seppe così bene avanzarsi nell’animo del principe,
indovinarne l’indole e i segreti pensamenti, che ormai tra i due non era più
altra distanza che del grado.”[vii]
4. esiste un’autobiografia manoscritta del
carbonaro Eleuterio Felice Foresti (1798-1858) nella quale l’autore
scrive: “…la più vasta, la più potente di queste società segrete cospiranti
fu quella detta dei Carbonari. A questa ebbero parte le classi più elevate
della nazione, nobili, cittadini facoltosi, uomini di lettere e scienze e belle
arti, antichi ufficiali di Napoleone, magistrati e dei sacerdoti, e persino gli
eredi di due troni italici – Alberto di savoia,
padre dell’attuale Re del Piemonte, ed il Duca di Calabria, figlio di Ferdinando
I di Napoli.”[viii]
In Piemonte gli elementi
moderati del patriziato subalpino volevano coinvolgere la dinastia sabauda
nella rivoluzione, a patto che concedesse una costituzione liberale. Il piano
consisteva nel convincere il re
Vittorio Emanuele I (1759-1824) ad accordare
Il Santarosa
doveva prendere accordi con il giovane Carignano. Carlo Alberto non nascondeva
simpatie per la fazione rivoluzionaria. Non fu quindi difficile al santarosa persuadere il giovane
principe a aderire al piano settario. Egli doveva a sua volta indurre il Re a
concedere
Il Re rimase
fermo nel suo rifiuto e abdicò in favore del fratello Carlo felice (1765-1831) che in quei
giorni si trovava a Modena, lasciando il Carignano come reggente. Carlo
Alberto allora diede la costituzione, mentre Santarosa lo scongiurava di
guidare l’esercito in Lombardia. Nonostante l’inopinato vantaggio, la congiura
languiva: poche erano le truppe che si erano ribellate, non più di qualche
migliaio; Torino era rimasta indifferente ai sollevati. Nelle province la massa
del popolo non rispose affatto agli appelli dei rivoluzionari. Anzi i
Carabinieri reali avevano tentato una controrivoluzione e ad Alessandria i soldati
minacciavano di fucilare gli ufficiali carbonari, se non desistevano dalla
sollevazione.
Il nuovo Re si dimostrò di tutt’altra tempra
rispetto al fratello. Il 16 marzo giungeva a Torino, come un fulmine a
ciel sereno, un proclama di Carlo Felice, che dichiarava ribelli gli aderenti
alla rivoluzione e sconfessava l’operato del cugino. Se Carlo Alberto non si
fosse subito presentato a Novara, presso le truppe fedeli al monarca, sarebbe
stato diseredato a vantaggio del suo primogenito ancora bambino. Il reggente, dinanzi all’ordine
perentorio, abbandonò la partita e raggiunse Novara. Il piccolo esercito
carbonaro, guidato da Santarosa, si accinse ad entrare nel milanese, sperando
di ricongiungersi con i ribelli lombardi, ma, nei pressi di Vercelli, l’8
aprile 1821, l’armata imperiale li disperdeva con facilità. Finiva così in
un fiasco completo la prima rivoluzione ‘italiana’.
4. Carlo Felice e Carlo
Alberto
Il Congresso delle potenze della Santa Alleanza, che
si riunì a Verona dal settembre al dicembre 1822, confermò il principio d’intervento a difesa
dell’ordine legittimo e, in particolare, affidò alla Francia l’incarico di
restaurare il re spagnolo nel
pieno esercizio delle sue funzioni. Si trattò anche, a lungo, su insistenza del
Re di Sardegna, la questione della successione nel Piemonte. Carlo felice era, infatti, intenzionato a
diseredare il nipote. alla fine
tuttavia si convinse a mantenerlo sub
condicione nell’ordine di successione. Il congresso
non determinò a quali condizioni il principe
di carignano avrebbe mantenuto il
diritto al trono, lasciandone l’individuazione al Re. Questi, infatti, stabilì
che Carlo Alberto, per cancellare l’onta del Ventuno, partecipasse alla
prossima spedizione militare in Spagna, e giurasse solennemente dinanzi
all’Imperatore austriaco che mai, una volta sul trono, avrebbe concesso una
Costituzione, come, infatti, avvenne a Genova nel
Vale la pena di approfondire queste poco
conosciute vicende sulla stregua di quanto ne scrive con cognizione di causa “
Dopo la concessione delle prime riforme
liberali da parte di Carlo Albereto nell’ottobre e novembre 1847, Cesare Balbo
pose mano alle sue Lettere politiche. Nella lettera sesta, il noto scrittore cattolico-liberale si
rivolse al re di sardegna, per incoraggiarlo a concedere
“Dopo gli avvenimenti del 1821 l’idea e il
proposito di togliere al Principe di carignano
la corona – scrive “
Interrogandosi, poi, lo storico de “
Come andarono effettivamente le cose?
Nel marzo 1821, Carlo Felice, Duca del
Genovese e fratello minore del Re Vittorio Emanuele I, si trovava a Modena.
Presto gli giunsero le nuove di quel che accadeva nel regno sardo: la rivolta
militare scoppiata a Torino il 10 marzo, consimili esplosioni nelle altre città
principali, e soprattutto ad Alessandria, la debolezza del Re e dei ministri
nel soffocarla, la richiesta dei carbonari ribelli della Costituzione spagnola,
l’abdicazione del Re a favore di lui, la reggenza di Carlo Alberto, la
concessione dello Statuto, l’amnistia per i reati politici, la costituzione di
una giunta costituzionale, la fuga del re
travolto dagli avvenimenti.
Carlo Felice era giunto al trono per una via
davvero inaspettata. I suoi pensieri furono subito occupati dal programma di
stroncare la rivoluzione, prendendola di petto, e di ridare al fratello la
corona, che aveva tanto debolmente difeso. Così
il 16 marzo 1821 lancia un proclama col quale disapprova fortemente la
concessa Costituzione e la giunta costituzionale, dichiara felloni e ribelli i
congiurati, revoca tutti gli atti del reggente principe di Carignano, e invita i popoli del Piemonte a
rinsaldare la loro fedeltà attorno all’antica monarchia sabauda. Ordina quindi
al Generale De
Nel giro di un mese la rivoluzione è stata
stroncata, così che Carlo felice ai 16 d’aprile poteva scrivere al fratello: “La
battaglia di Vercelli [8 aprile] non è stata che una scaramuccia, poiché
i bricconi se la sono quasi subito data a gambe levate; me ne è stata fatta una
descrizione un po’ ampollosa, per render la cosa più bella…ho nominato una
commissione militare per giudicare i colpevoli; il paese e l’esercito saranno
assolutamente purgati, e non vi è che la fermezza che possa raddrizzare le cose
e far felice il mondo. Trentadue anni d’esperienza ce l’hanno ben insegnato.”[xiii]
I ribelli riuscirono quasi tutti a fuggire, o
forse furono lasciati fuggire, appartenendo ad alcune delle famiglie più nobili
del regno subalpino, e furono condannati in contumacia. Soltanto due subirono
la pena capitale.
Il nuovo Re volle però colpire la rivoluzione
nel suo principale agente, le sette segrete, e il 5 ottobre 1821 emanò
un solenne editto, ove si leggeva: “I rivolgimenti ch’ebbero luogo nei
nostri Stati, come in altre contrade ebbero tutti una causa comune,
l’introduzione cioè delle Società Segrete, il cui scopo è di turbare la
tranquillità pubblica, di atterrare i Governi legittimi, di provocare la
corruzione dei costumi e il disprezzo della nostra santa religione. è per questo che noi abbiamo
riconosciuta la necessità di prevenirne le funeste conseguenze.”[xiv]
Il 13 di quello stesso mese indirizzò alle
popolazioni un proclama, ove indicava le linee di governo: “La nostra santa
Religione sarà la sola guida infallibile delle nostre decisioni…La giustizia
sarà il nostro fine costante; la fermezza la nostra regola, e, a tempo opportuno,
assoceremo loro la clemenza.”[xv]
Il 17 ottobre infine dopo sette mesi dallo scoppio della rivoluzione, Re Carlo
Felice faceva il suo ingresso a Torino. “Il Re di Sardegna – scriveva da
Vienna l’ambasciatore sardo Conte di Pralormo al ministro degli esteri De
Si trattava ora per il Re di adempiere il
compito più difficile. Quale atteggiamento assumere infatti verso il suo erede,
che figurava tra i principali promotori della congiura? Carlo Felice sapeva
delle inclinazioni liberali del cugino, e non aveva fatto misteri della sua
poca simpatia per le maniere e l’indole di Carlo Alberto. Tuttavia mai si
sarebbe aspettato che un principe del sangue dimostrasse tanta dissennatezza,
da divenire il nemico principale di quelle prerogative regie, che un giorno era
destinato a rappresentare. “Per tanto l’impressione cagionata nell’animo di
Carlo Felice da quella notizia fu così acerba, che concepì pel Carignano il
fiero proposito di tenerlo lontano dal suo cospetto, di voler legittimamente
venire a chiaro della sua colpabilità, di privarlo della successione alla corona.
E quest’ultima risoluzione non depose pienamente dall’animo se non dopo le
prove di quattro anni…”[xvii]
Il Principe Reggente Carlo Alberto non appena
ebbe concesso, firmato e giurato
Carlo
Alberto ubbidì, abbandonò i congiurati al loro destino, e raggiunse l’esercito
regio a Novara. Qui lo attendeva un dispaccio del Sovrano che gli intimava di
trasferirsi in Toscana presso il suocero, Ferdinando III. Il Carignano obbedì
ancora una volta, e il 30 marzo si avviò verso Firenze. Prima però, volle
passare per modena, per tentare
di incontrare il Re, ma questi non volle riceverlo. Nella capitale toscana giunse
il 2 aprile 1821, dove l’attendeva una nuova umiliazione. Anche il Granduca
infatti non volle ospitarlo a Palazzo Pitti, e dovette alloggiare in un
albergo.
Carlo felice a Modena gli aveva fatto
consegnare una lettera datata 31 marzo, ove si leggeva: “Nipote mio, vi ho già detto per mezzo del Cavaliere de Morette che
sono stato assai contento della vostra perfetta obbedienza. Non credo di
dovervi vedere in questo momento, essendo gli eventi accaduti in Piemonte
troppo recenti e potendo dar luogo il mio incontro con voi ad ogni tipo
d’interpretazione, che non mancherebbe di nascere. potete esser certo che non ho agito mosso da alcuna passione,
e che non faccio che seguire il disegno che il mio onore, la sicurezza
del paese e la tranquillità dell’Europa esigono…Spero un giorno di potervi far
conoscere un cuore e dei sentimenti che mai avete conosciuto in me, poiché la
vostra giovane età e i princìpi tutti opposti ai miei, nei quali siete stato
allevato, non vi hanno mai permesso di comprendermi.”[xix]
5.
La risoluzione del Re
Carlo Felice ha quindi un
“disegno”. Vuole conoscere fino a che punto Carlo Alberto si sia compromesso
con
Carlo
Felice, quindi, ordinò alla sua diplomazia, e soprattutto all’ambasciatore
presso la corte di Vienna, Conte di Pralormo, di preparare il terreno per
comunicare alle potenze straniere la sua intenzione di diseredare l’erede
presuntivo della sua corona. Ecco come il Conte Pralormo, all’atto di partire
per Vienna, descrive in terza persona l’udienza avuta col Sovrano, ove
ricevette quella segretissima commissione: “L’udienza di congedo,
che fu anche la prima, che questo Monarca abbia accordato al Conte di Pralormo, dopo il suo ritorno da Modena, ebbe luogo ai primi di gennaio
[1822]. Dopo qualche frase insignificante, Re Carlo Felice disse al Conte che
oltre alle istruzioni generali che aveva lui rimesse attraverso
Gravissimi motivi e di coscienza, disse il
Re, la cura che devo dare alla prosperità presente e futura dei miei sudditi,
mi hanno fatto prendere la risoluzione immutabile di escludere il Principe
di Carignano dalla successione alla Corona, e di farla passare ai suoi figli
secondo l’ordine di nascita. Questa decisione, alla quale sono irrevocabilmente
determinato, potrebbe far sorgere delle incertezze in futuro, se non venisse
sanzionata dagli alleati, esigo di conseguenza da voi, Conte Pralormo, che poco
dopo il vostro arrivo a Vienna, e nel momento che vi sembrerà più opportuno,
facciate conoscere questa mia decisione al Gabinetto imperiale, e vi accordiate
con esso sui mezzi per assicurarne l’esecuzione.”[xxi]
Il Conte
rimase allibito a queste gravissime parole. Quindi ribatté che la decisione
sovrana avrebbe trovato senz’altro opposizione tra le altre potenze, poiché
infirmava una delle leggi fondamentali dell’antica monarchia e del sistema
della Restaurazione. Il Sovrano rispose che, a suo giudizio, nessuna delle
corti straniere aveva validi motivi per sostenere le eventuali pretese al trono
del Carignano, e “…che non s’era deciso con
leggerezza, ma dopo mature riflessioni e per motivi di coscienza, di cui doveva
render conto solo a Dio, ma che voleva far conoscere agli Alleati in caso di
bisogno a tempo e luogo.”[xxii] Poiché il Pralormo
tentò ancora di replicare, avanzando la grande responsabilità che avrebbe
gravato non solo sul Sovrano, ma anche sui collaboratori che avrebbero
cooperato a quello scopo, “il Re prese allora un’aria
severa, e pronunciò le seguenti parole: Quando i Re si sacrificano per dar
riposo e tranquillità ai loro sudditi, hanno il diritto d’esigere che i
sudditi, quelli soprattutto che s’onorano della loro confidenza, si
compromettano per secondarne i desideri.”[xxiii] L’ambasciatore dinanzi
a tanta determinazione, chiese soltanto di avere un ordine formale per
iscritto, che Carlo felice gli fece
subito ottenere.
6.
L’Austria e la questione della successione sarda
Pochi giorni dopo il suo
arrivo a Vienna, l’ambasciatore piemontese comunicò al Principe di Metternich
la risoluzione del Re di Sardegna. Il Cancelliere imperiale giudicò gravissimo
l’affare, e volle conferirne subito con l’Imperatore Francesco I. Il Sovrano austriaco rispose a Pralormo che,
essendo il Re la fonte della giustizia, poteva benissimo far giudicare il
nipote ed applicargli le pene previste dalla legge, qualora fosse stato
giudicato colpevole. “La misura in questione
tuttavia [ossia la perdita del diritto di successione] non sarebbe stata considerata come un giudizio, ma come una misura
eccezionale, che dovrà avere tutto il suo effetto in un momento in cui il Re
non avrà alcun mezzo per farlo eseguire, cioè dopo la sua morte.”[xxiv] Un provvedimento così
grave, dunque, per essere veramente efficace, necessiterebbe anche
dell’approvazione delle altre corti
europee. Prima di venire a tale determinazione, però, le altre potenze, vista
la gravità del passo, vorranno avere la certezza dell’effettiva compromissione
del principe, sentirne l’eventuale discolpa ed esperire ogni via di conciliazione.
Metternich inoltre scrisse che “l’Imperatore per primo crederà
di commettere la più palese ingiustizia, se si agisse altrimenti verso chicchessia,
ma più particolarmente ancora nei riguardi di un Principe che era lui legato da
vincoli di sangue. Di conseguenza, in primo luogo e senza poter pronunciarsi in
alcun merito al riguardo, impegnava il Re a far conoscere all’Imperatore le
prove autentiche dei fatti, sui quali si basava la decisione di Sua Maestà.”[xxv] Come si vede la corte
imperiale volle procedere con grande circospezione e prudenza, nonché spingere
Carlo Felice a diseredare il nipote a vantaggio della Casa d’Austria.
Vienna
inoltre ordinò al Generale Bubna di conferire a voce con il Sovrano, per
significarli la medesima risposta, cosa che il militare fece nel marzo del
1822. Bubna riferì a Pralormo l’esito dell’abboccamento col Re sardo: “Il Re s’era mostrato inflessibile nella sua decisione, ripetendo
sempre che le Potenze Alleate avrebbero avuto più interesse di lui ad appoggiarlo,
ma che quando gli era stato chiesto di addurre dei fatti, Sua Maestà non aveva
potuto produrre altro che il suo convincimento e delle allegazioni generali, e
che aveva finito per chiedere al Generale Bubna, che il Gabinetto viennese gli
comunicasse i testi dei processi [contro i carbonari] di Milano e Venezia, nei quali potevano trovarsi dei fatti che avrebbero
comprovato la sua decisione.”[xxvi] Ma né nel 1822, né nel
1825, l’Austria trasmetterà i verbali dei processi contro i carbonari del Lombardo-Veneto.
Si
profilavano così due posizioni.
Quella del
Re sardo, che voleva che le Potenze della Santa Alleanza confermassero la sua
decisione irrevocabile di diseredare Carlo Alberto a vantaggio del suo figlio
primogenito. quella della corte
austriaca, che voleva che il principe piemontese fosse sottoposto ad un
regolare processo, che ne dimostrasse inoppugnabilmente la colpevolezza di lesa
maestà, e solo in seguito, come estrema ratio,
si procedesse alla diseredazione del Carignano, di cui, per essere veramente
efficace, dovevano farsene garanti le corti europee. Tutto, comunque, era
rimandato al prossimo Congresso di Verona, che doveva aprirsi nel settembre
1822.
7.
Il Congresso di Verona (settembre-dicembre 1822)
Il
Pralormo, richiesto dal Metternich di aggiungervi qualche osservazione, ebbe
modo di leggere il memoriale ancora
nella minuta: “Il ministro Imperiale -
scrive - esamina con una onorevole imparzialità i
motivi che avevano potuto indurre il Re a concepire un tal progetto, le
conseguenze che ne potevano risultare per l’Europa, e conclude che la misura
alla quale il Re sardo voleva procedere, non poteva essere ammessa, e
che le Corti alleate dovevano impegnarsi per favorire una franca conciliazione
tra il Re Carlo Felice e l’Erede presuntivo della Corona.”[xxvii]
Il
Congresso di Verona si aprì il 12 settembre.
Carlo Felice
vi giunse il 30 ottobre, ma della questione che gli stava tanto a cuore non
s’iniziò a discutere che ai primi di dicembre. La linea al riguardo era già
stata decisa da Vienna. Occorreva favorire la riconciliazione fra zio e nipote.
La determinazione del Sovrano piemontese di diseredare Carlo Alberto era quindi
stata rigettata. Metternich tuttavia volle appagare almeno in parte le esigenze
del Re di sardegna. Per questo
nel Memoriale di Vienna scriveva: “Noi crediamo nello stesso
tempo che facendo questo sacrificio al principio della legittimità [ossia
non ostacolando la salita al trono di un pessimo principe pur di tener saldo la
legge fondamentale di successione] i Sovrani alleati dovrebbero
cogliere quest’occasione per mettere delle condizioni al perdono del Re,
che offrissero a S. M. sarda, ai
suoi popoli ed ai suoi augusti alleati, garanzie della condotta del Principe di
carignano per l’avvenire e che
mettessero nello stesso tempo questo principe nell’impossibilità di diventare
una seconda volta il giocattolo dei faziosi e d’essere trascinato da essi a
rovesciare le leggi fondamentali dello Stato.”[xxviii]
L’idea del
cancelliere imperiale fu accolta all’unanimità, ed anche Carlo felice dovette accettarla. Si trattava
tuttavia ancora di determinare in concreto le condizioni per il perdono
reale. A questo pensò lo stesso Carlo felice,
che le espose personalmente ai sovrani alleati in dicembre. L’ambasciatore
piemontese Pralormo ha conservato copia di questo breve Memoriale, che dettava
a Carlo Alberto le condizioni per rientrare nelle grazie sovrane:
“Verona 10 dicembre 1822
Osservazioni confidenziali e segrete del
Conte di Pralormo sul progetto di riconciliazione ideato dal Re Carlo Felice
relativamente al Principe di Carignano, e proposto da Lui ai Sovrani alleati
riuniti a Verona.
Questo progetto consiste in due punti
separati e distinti:
1. inviare il
Principe di Carignano alla campagna di Spagna agli ordini del Duca d’Angouléme
per comprometterlo, secondo le parole di Carlo Felice, agli occhi dei liberali.
2. Fargli fare un giuramento solenne e per iscritto,
dopo il suo ritorno dalla Spagna, dove s’impegna a non innovare nulla nelle
basi e leggi fondamentali della Monarchia…”[xxix]
Il Conte si diceva soddisfatto del primo
punto, ma giudicava insufficiente ed inutile il secondo. Anche altri convenuti
al Congresso veronese tentarono di cassare la seconda condizione. il Re Sabaudo però tenne fermo, ed alla
fine, essendo stata da lui accolta, in linea di massima, la tesi della
riconciliazione, seppur condizionata, fu lasciato alla sua prudenza di
determinarne le modalità d’attuazione. In questo modo il Congresso si
scioglieva avendo in parte risolto ed in parte lasciata pendente la grave
vertenza tra il Sovrano piemontese ed il suo nipote ed erede.
8.
Il giuramento di Carlo Alberto (1824)
Carlo
Alberto venne a sapere ben presto, dal suo esilio toscano, della guerra decisa
a Verona contro la rivoluzione spagnola. Fin dall’inizio del 1823 inviò lettere
al Re per chiedere il permesso di poter associarsi all’impresa bellica guidata
dalla Francia. Carlo Felice però non diede subito il consenso. Voleva, infatti,
facendogli chiedere più volte pubblicamente l’autorizzazione a partecipare alla
guerra contro i liberali di Spagna, compromettere il proclamatore della Costituzione
del 1821 con la causa della reazione ed ergere tra lui e la rivoluzione un muro
invalicabile. Voleva inoltre che Carlo Alberto, ammaestrato dalla dura lezione
che gli era stata impartita, nutrisse verso i princìpi rivoluzionari quello
stesso aborrimento che era così naturale nel Re Sardo. Il Sovrano piemontese
sperava insomma in una sincera conversione del cuore del nipote ed erede.
I processi istruiti contro i ribelli del 1821
intanto dimostrarono, almeno giuridicamente,
che il Carignano non era addentro nella congiura. Questo attenuò almeno in
parte il sospetto del Re verso Carlo Alberto.
Finalmente, dopo due anni d’esilio, giunse
all’esule il permesso di aggregarsi all’esercito francese che invadeva
La morte improvvisa del fratello del Re,
Vittorio Emanuele a Moncalieri il 10 gennaio 1824, ritardò l’arrivo di Carlo
Alberto, che poté rivedere Torino solo l’8 febbraio del 1824. il Re aveva ordinato al nipote di
entrare in città di notte, perché il suo arrivo desse il meno possibile
nell’occhio. Ancora una salutare umiliazione!
Ora si trattava per Carlo Felice di eseguire
la seconda parte del progetto: far giurare solennemente il nipote a non mutare
in nulla l’antica costituzione della monarchia subalpina. Il Pralormo, interrogato
dall’Imperatore Francesco I ai primi di novembre del 1824, su quali fossero le
intenzioni del Re Sardo sulla questione del giuramento di carlo Alberto, gli rispose: “Sire […] il Re mio Padrone non ha
mutato avviso riguardo al Principe. Le sue intenzioni a suo riguardo sono
ancora quelle che ha annunciato a Verona. Si ripromette di richiamarlo presso
di sé, ma prima vuol fargli sottoscrivere un atto, per il quale il Principe
si obbliga a conservare intatte le basi fondamentali e le forme organiche della
monarchia, tal quali le troverà al momento del suo avvento al trono. L’alta
e completa confidenza, che il Re ha posto in Vostra Maestà, mi fa certo che non
pensa di comunicargli quest’atto finché non ne sarà definita la stesura.”[xxx]
Il
pomeriggio del 9 febbraio Carlo felice
ricevette in udienza, dopo quasi tre anni che non lo vedeva, il giovane nipote.
Secondo la testimonianza del cavaliere di Beauregard, che aspettava con altri
tre gentiluomini in anticamera, il colloquio fu lungo e tempestoso.
Ma quando
fu sottoscritto il famoso giuramento?
Ancora il
ben informato Pralormo scrive: “al
momento del ritorno del Principe di Carignano dalla sua campagna di Spagna, il
conte di Pralormo fu incaricato dal Re Carlo Felice di comunicare
all’Imperatore Francesco, che il Principe di Carignano aveva prestato solenne
giuramento di non innovare in nulla le leggi e le basi fondamentali della
Monarchia. Il Re aggiungeva che al primo incontro, avrebbe data comunicazione
del giuramento all’Imperatore. L’incontro ebbe luogo a Genova nel
9. L’incontro di Genova
(1825)
Riassumendo. Dopo il ritorno di Carlo Alberto
dall’impresa spagnola, egli giurò solennemente con un atto formale e per
iscritto, che mai avrebbe mutato l’antico assetto istituzionale della monarchia
subalpina. Carlo Felice volle inoltre, per dare ulteriore ufficialità
all’impegno del carignano e
chiudere, per così dire, completamente la vertenza con lui, che s’incontrasse
con l’Imperatore austriaco. Il che avvenne appunto nel
Che i sospetti del Sovrano piemontese verso
l’erede non fossero del tutto spenti, lo dimostra il fatto che, ancora nel
1825, egli faceva richiesta, per mezzo del suo ambasciatore a Vienna, Conte
Pralormo, di copia dei verbali del processo Gonfalonieri. voleva probabilmente sincerarsi
definitivamente della colpevolezza o meno di Carlo Alberto nei fatti del
Ventuno. L’Austria ancora una volta ricusò di trasmetterli.[xxxii]
Nella primavera del 1825, comunque, Carlo
Felice fece testamento (10 marzo) e su consiglio del suo confessore, Padre
Grassi, riconobbe anche in quel documento, che raccoglieva le sue ultime volontà,
il Carignano come erede e successore. Poi, il 13 aprile, si trasferì con la
famiglia a Genova in attesa di Francesco I. il
24 maggio giunsero anche Carlo Alberto e la consorte.
Il Principe di Metternich ha lasciato una
descrizione dell’episodio.
“Dopo l’alzata di scudi che si fece in
Piemonte per opera de’ rivoluzionari del 1820-21, il Re Carlo Felice avea
fermato il proposito di privare della successione alla corona il Principe di
Carignano, che si era fatto innanzi quale gonfaloniere della rivoluzione; e di
trasferire i diritti di successione nel figliolo di lui.
Il Re voleva, mancando un’ordinazione
prammatica, determinare la successione ereditaria, e metterne l’adempimento
sotto la sanzione e la malleveria dell’Imperatore Francesco.
Ma l’Imperatore disapprovò cosiffatto
divisamento. Egli era di parere – ed io consentiva con lui – che determinazioni
di quella fatta portano sempre in seguito, di loro natura, inevitabili
scompigli della pubblica quiete.
Quando l’Imperatore Francesco nel 1825
visitava il regno
lombardo-veneto, questo negozio trattatasi tuttavia per lettere.
Il Re Carlo Felice offerivasi a fare di
persona una visita in Milano all’Imperatore. Il quale colse allora il destro
per influire sulla decisione del Re riguardo a quella questione non ancora
terminata. Significò che il loro abboccamento sarebbe una cosa intesa, qualora
il Re si fosse deciso a non toccare all’ordine stabilito nella successione al
trono. Nel qual caso l’Imperatore preferiva, come luogo del loro ritrovo non
Milano, ma la città di Genova. […]
Il Re [Carlo Felice] mi espresse il dispiacere ch’egli
provava in questa faccenda, mentre mi parlò così: ‘Ho ceduto alla volontà
dell’Imperatore, sia per il rispetto che gli porto, sia per l’omaggio che rendo
ai sentimenti che lo animano, e cioè l’ordine appoggiato sui princìpi e
l’esperienza. Ciò però contro cui non so difendermi, è la convinzione che
sarà l’Austria in particolare a dover lamentarsi di un uomo le cui idee sono
interamente pervertite!’
In quanto a ciò io gli feci intendere che
l’Imperatore non si muoveva in questo negozio come spinto da qualche sentimento
di fiducia nel Principe di Carignano; ch’egli aveva dinanzi agli occhi, nel
trattar la questione della successione al trono, solamente la cosa in sé e non
la persona dell’erede presuntivo; che insomma di due mali sceglieva il più piccolo.”[xxxiii]
Dopo aver accennato all’arrivo a Genova di
Carlo Alberto, Metternich continua: “Dopo un’udienza da Sua Maestà [l’Imperatore]
che durò più d’un ora, il Principe si recò da me, e s’intrattenne meco per
tre ore. Era già notte avanzata, in modo che dovetti soprassedere fino
all’indomani per presentarmi a Sua Maestà. L’Imperatore mi rivolse subito
queste parole: ‘Su dunque, quale impressione ha lasciato in voi il Principe di
Carignano!’ Io pregai l’Imperatore perché gli piacesse di non cambiare la serie
cronologica delle cose, importandomi assai di conoscere l’impressione che il
Principe aveva fatto a Sua Maestà nel lungo trattenimento avuto con lui.
‘Quanto a me, rispose l’Imperatore, nessuna
favorevole impressione mi ha fatto il principe, e ve la posso esprimere in
poche parole: il Principe è un parolaio e siffatta gente non m’ispira mai confidenza!’
‘Nelle parole di Vostra Maestà, soggiunsi io,
è espressa a pennello l’impressione che ne ho riportato anch’io nelle tre ore
di conversazione che ho avuto con lui.’
‘Con tutto ciò, proseguì l’Imperatore, non
s’ha a fare altro in questo negozio all’infuori di quello che si è fatto.’ E
quella stessa mattina l’Imperatore condusse il Principe dal Re. Carlo Alberto
s’inginocchiò dinanzi al Re e con lagrime ne implorò il perdono.
‘è all’Imperatore
– prese a dire Carlo Felice – e non alla vostra nascita, né a me, cui voi siete
debitore. Non dimenticatelo mai, non date mai occasione al vostro protettore di
pentirsi della sua generosità.’
Il Principe protestò altamente la sua ferma
risoluzione.”[xxxiv]
10. Carlo Alberto Re di
Sardegna (1831)
Il 27 aprile 1831 moriva Carlo Felice.
Il Principe di Carignano, allora
trentatreenne, saliva su quel trono che una follia giovanile aveva rischiato di
fargli perdere. I fantasmi di un ambiguo passato parvero però materializzarsi,
quando il giovane sovrano ricevette una missiva dal capo della nuova carboneria,
il terrorista Giuseppe Mazzini: “Gli Italiani – così scriveva il
pugnalatore genovese – vogliono la libertà, indipendenza ed unione […] traggi,
come Dio dal caos, un mondo da questi elementi dispersi, riunisci le membra
sparte e pronuncia: è mia tutta e
felice […] Sire, voi la nutriste cotesta idea […] voi vi faceste
cospiratore per essa. E badate a non arrossirne.”[xxxv]
Carlo Alberto non poté allora agire che in
maniera diametralmente opposta alle speranze dei rivoluzionari. Gli occhi di
tutte le Corti europee erano rivolte su di lui, osservandone ogni minima mossa.
I tentativi mazziniani del 1833 e del 1834 furono quindi stroncati con pronta
severità. L’azione decisa a recidere le trame della piovra mazziniana, indicarono
con chiarezza, almeno all’esterno, che il giovane re aveva ormai dimenticato i
suoi antichi trascorsi. “Così egli poté per quindici anni dissimulare
l’antica animosità contro l’Austria, che covava nel ‘lago del cuore’ da tempo
antico e solo a quando a quando per qualche repentina circostanza le diede
esàlo in alcuna fiammata passeggera.”[xxxvi]
La politica estera del Regno subalpino di
quegli anni, infatti, seguiva le linee di una schietta adesione ai programmi
della Santa Alleanza. Così, Carlo Alberto, sostenne, con armi, denaro ed il
peso della sua diplomazia, il partito di Don Miguel in Portogallo e i Carlisti
in Spagna, esponenti entrambi della monarchia antiliberale.
Alcuni segnali, comunque, retrospettivamente
individuati con finezza da Solaro della Margarita, per molti anni ministro di
Carlo Alberto, segnalano come il Sovrano piemontese non avesse dismesso del
tutto l’idea di una guerra all’Austria: “Intanto, come quegli che aspettava
l’alzata sul cielo italico della ‘fatidica stella’, la cui sorgente doveva per
lui precorrere di poco i sinistri bagliori del tramonto, rivolse tutte le sue
cure alla formazione di un potente esercito. Ché se le fosche opere del
ministro per la guerra [Villamarina] non risposero o se riuscirono
inferiori all’aspettazione e non contentarono i periti dell’arte, non fu colpa
sua. […] Con pari studio riattò e accrebbe la marina per guisa che verso
il 1846 le forze di terra e di mare comparivano in un quadro veramente formidabile
per il piccolo ma armigero Stato, ch’era il regno Sardo.”[xxxvii]
A poco a poco, Carlo Alberto, che era
abilissimo nel dissimulare e tener nascosti i suoi veri intendimenti, nel
momento in cui il suo trono sembrava saldissimo all’interno e rispettato
all’estero, cominciò a circondarsi di uomini tutti della fazione liberale: il
marchese Villamarina, il conte Gallina, che partecipò ai moti del Ventuno: “Tale
scelta - continua Solaro de
Come se non bastasse, ben presto il Re Sardo
iniziò, per mezzo di alcuni intimi amici, come il Conte Castagnetto, il
Cavaliere Canna ed altri, a mantenere una fitta corrispondenza e strette
relazioni con i maggiori fautori del liberalismo piemontese ed italiano. Così
in Torino, continui erano i contatti con Cesare Balbo, esponente di spicco, si
può dire, della fazione rivoluzionaria in Piemonte: “In lui mettevano capo
– scrive “
11. Carlo Alberto e la
religione
Il Carignano era sinceramente religioso, frequentava i
sacramenti con pietà cristiana, leggeva e commentava
La religione, infatti, non gli era stata
insegnata fin da piccolo, e quando, finalmente, durante l’adolescenza, ebbe
modo di approfondire le sue conoscenze dottrinali, non ricevette un insegnamento
accurato teologicamente. Questa lacuna rese il suo cattolicesimo qualcosa di
esteriore, senza convinzioni salde, e formalistico, più che profondamente
convinto.
A questo vizio d’origine della sua formazione
religiosa, sono da addebitarsi le controversie in materia con la gerarchia
cattolica, e soprattutto con l’Arcivescovo di Torino, Mons. Fransoni.
Così nella questione di competenza
giurisdizionale per la revisione ecclesiastica del 1835, per i cimiteri e per
la forza obbligatoria delle sentenze ecclesiastiche nel 1836, per la soppressione
delle decime al clero sardo nel 1840, per l’immunità ecclesiastica nel 1841,
nell’introdurre nel regno le famigerate scuole di metodo, cui fece chiamare a
primo istitutore il liberale abate Ferrante Aporti, Carlo Alberto sostenne
sempre le tesi liberali, non temendo di scontrarsi col Fransoni. Anzi in
quest’ultimo cimento, poiché il presule torinese aveva vietato al clero di
frequentare quelle scuole, fondate in Lombardia ad opera di vecchi aderenti del
Carbonarismo, il Sovrano andò su tutte le furie, e da quel momento i rapporti
fra la massima autorità ecclesiastica e il Re Sardo si ruppero definitivamente.
12. La ‘cospirazione’
italiana e Carlo Alberto
Il Re Sardo era stato quasi travolto dalla corrente rivoluzionaria
nel ventuno. Negli anni
successivi alla salita al trono sembrava essersene definitivamente emancipato.
Ora però, attorno al 1846, i continui fallimenti della massimalismo
repubblicano di Mazzini, riportarono all’ordine del giorno della rivoluzione la
necessità di esperire ancora la via moderata, monarchico-costituzionale, quella
via che era fallita inopinatamente nel 1821 per il tradimento di Carlo Alberto
e per ferma avversione di Carlo Felice. Ma ora i tempi sembravano maturi.
“
Erano forze disperse senza unità d’intesa,
senza disciplina di mosse, senza speranza di riuscita, senza uno scopo
determinato. In torino si pensò
di organizzare quelle forze sparse e rivolgerle a quell’unità di scopo, ch’era
stato comune a tutte le sette: nazionalità libera indipendente. A superare le
difficoltà della riuscita tutti vedevano tornar vane oramai le rivoluzioni
armate e le secrete congiure. E in quella vece, per l’effettuazione del nuovo
procedimento, giudicarono prima di tutto necessaria la scelta di un capo, di un
potente, di un principe italiano con esercito e con altri mezzi. La scelta di
questo principe, tra tutti quelli che allora tenevano regno in Italia, cadde a
occhi chiusi, si può dire, di tutti, sul Re di sardegna.
Si trattava poi di dare esecuzione al vasto,
quanto ingegnosissimo divisamento: affratellare i popoli e congiungerli in
unità di aspirazione naturale, di unire e affiatare i capi delle sette per
dirigere a quello scopo le grandi leve delle masse e la terribile potenza della
pubblica opinione. Per ciò si decisero e in verità furono per molti anni spesi
incredibili sforzi, d’industria e di denari, in viaggi, pubblicazioni e
congressi imprima; e quindi si usarono le dimostrazioni popolari, il giornalismo,
la guardia civica, la cacciata dei Gesuiti, lo Statuto, la guerra! Vi fu dunque
una cospirazione ‘segreta’, la quale si agitò nel centro di un’altra cospirazione
‘aperta’, nazionale e solenne, di cui la prima diresse le mosse a una a una, ne
maneggiò in secreto tutte le fila che si muovevano all’esterno e ne regolò le
varie fasi per lo spazio di un decennio sino al
13. Rivoluzione
‘culturale’ in Piemonte
i primi mezzi di propaganda
dell’idea rivoluzionaria furono le associazioni scientifiche. La prima
apparve nel 1841 col nome, apparentemente inoffensivo, di Club de la
socièté du Whist. L’anno dopo, 1842, ne nacque una seconda, l’Associazione
agraria. D’entrambi fu fondatore o esponente di rilievo, Camillo
benso di Cavour. Il Re sapeva
bene il vero scopo di quei consessi. Soprattutto la seconda ebbe notevole successo.
Scrive il Predari: “Renderli [i
coltivatori] elementi di edificazione sociale era il suo scopo morale.
Avviare i popoli a grandi imprese, promovendo l’unione delle forze…,
affratellare le province e le città nei congressi, educare i cittadini alla
pubblicità e alla discussione era il suo scopo politico.”[xli]
L’Associazione agraria raggiunse i quattromila iscritti, tra i quali
figurava il figlio primogenito del Re, Vittorio Emanuele; ebbe una sua
biblioteca, e pubblicò riviste. Infine il Sovrano ne fece un’istituzione regia,
ponendovi alla presidenza un suo uomo, il marchese Cesare Alfieri di Sostegno,
vecchio cospiratore del Ventuno. “In essa si fece esperimento anticipato del
gioco parlamentare e vi si poterono scorgere i primi embrioni del
parlamentarismo con le sue libertà discordi, con la fecondità delle ire di
partiti, con l’altalena o l’alza e cala vicendevole di Gracchi e di Marcelli.”[xlii]
La rivoluzione culturale continuò con la
pubblicazione dell’Enciclopedia popolare, ideata appunto, come
dice senza ambagi, il Predari, che ne fu direttore, per servire “di
validissimo e non sospetto strumento di propaganda politica.”[xliii]
N’era presidente Cesare Balbo, il capofila dei cattolici-liberali piemontesi.
Nacque in seguito, con medesimo intento, l’Antologia
Italiana, che voleva essere la ripresa ideale dell’Antologia
del massone toscano Vieusseux. Scopo era tener vivo nel Piemonte il “fuoco
patrio, che dovea ravvivarsi a poco a poco in tutte le altre province d’Italia.”[xliv]
A queste pubbliche istituzioni, che godevano
tutte il favore di Carlo Alberto, si affiancarono, tra il 1843 e il 1846, varie
pubblicazioni di opere, destinate “a spandere nel ceto colto di tutta la
penisola le nuove aspirazioni e renderle quanto più fosse possibile popolari.”[xlv]
Dapprima venne alla luce il Primato
morale e civile degli Italiani dell’abate già mazziniano, Vincenzo
Gioberti (1801-1852): “Non era in fondo se non un gigantesco sofisma,
che diceva all’Italia ciò che si potrebbe dire del pari alla Turchia, alla
Macedonia e alla stessa Beozia. Ma era tratteggiato con rara foga d’entusiasmo
e con grandissima facondia, piena, anzi furente di amore pel patrio
risorgimento e respirante concordia tra popoli e principi, tra religione e
patriottismo.”[xlvi]
Ad essa venne dietro le Speranze
d’Italia di Cesare Balbo (1789-1853), e i romanzi storici di Massimo
D’Azeglio. La popolarità di queste opere di autori piemontesi
diffuse in tutta la penisola le dottrine nuove e ve ne accrebbero i partigiani.
Meno popolare, forse, ma più schietto nella
sostanza, fu il saggio Des Chemins de fer en Italie, che Camillo
Cavour pubblicò nel maggio 1846 sulla rivista francese “Revue mensuelle”. Il
piemontese vi esponeva “non tanto il bene fisico del paese, risultante a pro
del commercio dalle nuove linee ferrate, abbreviatrici delle distanze, quanto
il bene ‘morale’ di tutta l’Italia, ch’egli già intravede ed esige senz’ambagi
di frase giobertiane e senza velo di reticenze.”[xlvii]
A partire dalla seconda metà del 1846 il
lavorio propagandistico si infittì, e molte altre opere vennero alla luce, come
le Lettere politiche del Balbo, e il commento che ne fece
Giuseppe Montanelli. A Parigi si stampava l’Ausonio, un
giornaletto democratico, cui collaborava la settaria principessa Cristina di
Belgioioso. E ancora videro la luce in quel torno di tempo i Pensieri
sull’Italia di un Anonimo lombardo, che era Luigi Torelli; la question italienne del
Canuti; Della nazionalità italiana di Giacomo Durando, Della
sovranità temporale dei Papi del galeotti,
ecc. “In tutti l’idea dominante era la riscossa dell’Italia per
l’indipendenza nazionale,, in nessuno sostenevasi la distruzione del potere temporale.
Ma questo era voto giurato nelle Vendite carbonaresche, e studiosamente
dissimulato, per non ispaventare la coscienza del popolo. I maggiorenti solo ne
erano informati a pieno.”[xlviii]
Tuttavia, come ammetteva candidamente l’Archivio
triennale delle cose d’Italia: “Per Durando codesta era niente più
che una manovra strategica […] Il guelfismo di Gioberti, Balbo e Azeglio
non ingannava nessuno, tanto era grossolana quella finzione.”[xlix]
14. Trame nell’ombra
Alla propaganda si affiancò
ben presto un’intensa opera cospirativa, per ordire le fila della rivoluzione
italiana. A quest’importantissimo compito si dedicò Massimo
D’Azeglio.
D’Azeglio
apparteneva ad un’antica famiglia piemontese. Suo padre Cesare era stato un
importante esponente della controrivoluzione nel regno subalpino, il fratello
Taparelli D’Azeglio era entrato nella Compagnia di gesù. Massimo, al contrario, si era dato per tempo alla
Carboneria, per entrare poi nelle file mazziniane ed approdare infine al
partito monarchico-costituzionale. A partire dal 1845, sfruttando la sua vasta
conoscenza del mondo settario italiano, il piemontese cominciò a tessere le
fila della cospirazione, che doveva portare Carlo Alberto ad essere il primo
monarca costituzionale d’Italia.
Durante
l’estate di quell’anno, girovagando, sotto le mentite spoglie di pittore, per
le Marche e
Tornato a
Torino, D’Azeglio volle incontrare il Re, per metterlo a parte della sua attività.
Carlo Alberto non si dimostrò affatto meravigliato, né diede segni di
riluttanza, quando D’Azeglio gli narrò il buon esito delle sue mene negli Stati
del Papa ed in Toscana. anzi il
Sovrano subalpino gli disse: “Faccia sapere a quei Signori che stiano in
quiete…siano certi che presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei
figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la
causa italiana.”[l]
D’Azeglio,
ricevuto quest’incoraggiamento, volle incontrare i settari piemontesi. Si
abboccò col Cornero, capo dei mazziniani torinesi, per convincerlo che “non
v’era altro modo che spingere colle vie legali re e governi alle riforme, alle
costituzioni, all’acquisto della nazionalità. Ci espose i molti colloqui avuti
col re, i continui discorsi di questo, spiranti amor d’Italia ed odio mortale
all’austriaco.”[li] Il Cornero, conquistato
alla causa di Carlo Alberto, parte a sua volta per
15. Carlo Alberto getta la maschera
Secondo Solaro de
Anche il Re
sabaudo, solitamente così guardingo e misterioso, non faceva ora più mistero
del suo pensiero. Nella sua corrispondenza pubblica e privata, l’antico odio
anti-austriaco ricominciò a serpeggiare. A seguito di un piccolo incidente di
confine sul ticino, scriveva,
che, se l’Austria non cessava dalle prepotenze, avrebbe sollevato Piemonte e
Lombardia con le campane a martello, per “marciare avanti alla testa del suo
esercito, qualora la necessità lo richiedesse.”[liii] Nel saluto dato alla
riunione dei Comizi agrari a Casale nel settembre 1847, risuonarono queste
scoperte parole: “Aggiungete solamente che se Dio ci farà la grazia di poter
intraprendere una guerra d’indipendenza, e sia io solo a comandare l’esercito,
sono risoluto a fare per la causa guelfa, ciò che Schamil compie contro
l’immenso impero russo!”[liv] Schamil (1797-18871) era
un capo islamico del Daghestan, che si era ribellato ai russi, proclamando la
guerra santa contro gli infedeli.
16. Carlo Alberto e Pio IX
I temerari pronunciamenti
del Sovrano piemontese degli anni 1846-47 avevano una spiegazione. Un
avvenimento aveva spinto il Re a manifestare sempre più chiaramente i suoi
intimi intendimenti: la salita al soglio di Pietro di Pio IX.
Clemente
Solaro de
Sarebbe
lungo ripercorrere la china che, a poco a poco, cedimento dopo cedimento,
condusse il nuovo pontefice a carezzare la rivoluzione, fino alla concessione
della costituzione. Carlo Alberto osservava e seguiva con grandissima attenzione
quel che succedeva a Roma. Sentiva gli elogi con cui artatamente i settari
innalzavano al cielo Pio IX, quasi che il progetto di rinnovamento indicato da
Gioberti – un papa alla guida del
Risorgimento – si stesse per realizzare. Soltanto la religione ancora e i saggi
consigli de
I settari,
da un lato, avevano buon gioco a convincere il re Sardo, che anche il Papa voleva estromettere l’Austria
dall’Italia, e secondare il moto nazionale; dall’altro, diffondevano ad arte in
tutta Europa, un’immagine del Pontefice solo in parte corrispondente alla
realtà. Era una congiura del sorriso, quella insomma che spingeva quasi
insensibilmente il recalcitrante Pio IX, e il più convinto Carignano, lungo i
sentieri fioriti della rivoluzione nazionale e della guerra all’Austria.
“è indubitato – scrive lo Sclopis – che
il rapido avviamento alle forme costituzionali, manifestatosi nei governi italiani
fra il fine del 1847 ed il principio del 1848, è dovuto all’impulso venuto dal
Vaticano, e comunicato a tutto il clero; e lo scrittore di queste pagine udì il
Re Carlo Alberto ripetere anzitutto di là il motivo della pronta concessione
dello statuto ai suoi popoli.”[lvi]
Nell’agosto
del 1847 un nuovo caso sembrò confermare Carlo Alberto nel proprio disegno.
L’Impero, che teneva guarnigione in Ferrara, città pontificia, decise
d’occupare tutta la città, come ad avvertire il Pontefice a non andare oltre
nella sua politica di conciliazione con la fazione liberale. La santa Sede
protestò vivacemente per quella che sembrava una flagrante violazione dei
trattati. I rivoluzionari diedero fiato alle trombe per ingigantire l’incidente
e rendere così possibile un’alleanza tra gli Stati della penisola, e soprattutto,
tra il Papa e il Re del Piemonte, contro l’Austria.
“il Re Carlo Alberto, che ogni occasione
spiava di cogliere in fallo l’Austria, ne godé insieme e ne fremette: soprattutto
perché il Cardinal Ferretti [segretario
di Stato di Pio IX], più ricco di spirito ecclesiastico che di accorgimento
diplomatico, nel fervore del suo zelo, si era rivolto al marchese Pareto,
ministro di Sardegna in Roma, affermandogli Carlo Alberto essere il solo
alleato del santo Padre, il quale
aveva ricusate le offerte della Francia, perché unicamente di lui si fidava.
Informatone, il Re ne fu in giubilo. Tosto fece risapere al Papa che egli era
pronto a’ suoi servigi ed alla sua difesa; in acconcio di mandare navi a
guardia delle coste di Romagna, e beatissimo di riceverlo ospite nel suo Regno,
quando, accesasi una guerra, Sua Santità non si credesse a sufficienza libera e
sicura nella sua Sede.”[lvii]
Tuttavia sul finire dell’anno, la vertenza
tra Santa Sede e l’Austria, fu ricomposta con soddisfazione d’entrambi. Il
Sommo Pontefice volle così far intendere a tutti e soprattutto al Piemonte, che
egli metteva ogni cura per mantenere la pace e renderla anzi sempre più
stabile, e che non era affatto animato da sentimenti guerreschi.
Il Re di Sardegna, tuttavia, si dolse della
pace ritrovata tra Papa e Imperatore. Vedeva, infatti, allontanarsi una ghiotta
occasione per scatenare, sotto il pretesto della difesa della Santa Fede e
della cattolica religione, quella guerra per il possesso della Lombardia e la
corona d’Italia, che ormai era la meta suprema del suo regno. Così disse,
infatti, confidenzialmente al barone Bettino Ricasoli, venuto apposta da
Firenze per conferire con lui sul risorgimento d’Italia, il 1° dicembre 1847: “Lei sa come resistei all’Austria, quando
fu occupata Ferrara: io era pronto a muovermi in soccorso del Pontefice. Poi il
Pontefice non si mostrò più risoluto. Ma io ero fermo; io solo, con la mia
armata, senz’altri aiuti, avrei invaso
17. Carlo Alberto caccia Clemente Solaro de
I settari piemontesi,
scorgendo ormai in pieno sole i pensieri intimi del Re, coglievano ogni
occasione per invogliarlo al bivio senza ritorno. Il 2 maggio 1846, se ne ebbe
una prima avvisaglia, quando Carlo Alberto si lasciò convincere a pubblicare
una sorta di ultimatum contro l’Austria, per la questione dei sali. Subito i
settari, guidati da Massimo D’Azeglio, organizzarono un’imponente
manifestazione d’appoggio al Re e in favore della guerra. Solaro de
La salita al
trono di Pio IX, tuttavia, diede maggior peso ancora all’influenza dei liberali.
“A furia di evviva, di canti, di glorie, di accompagnamenti festosi, di
coccarde e di sbandierate, capitanate e dirette da quel futuro liberatore degli
ebrei, che vedremo essere stato Roberto D’Azeglio, la pubblica cospirazione
ottenne una prima vittoria trionfale nel giorno nove di
ottobre 1847, nel qual giorno Carlo Alberto licenziò i due
ministri della guerra e degli affari esteri, il Villamarina e il
18. Carlo Alberto e le prime riforme liberali
Dopo la caduta del
Massimo
D’Azeglio, che ne era il regista, scriveva il 22 ottobre
In quei
giorni uscì anonima una feroce satira in titolata Re Tentenna:
Un
re, che andava fin dalla balia,
pazzo
pel gioco dell’altalena…
Carlo
Alberto rimase avvilito e irato per quell’attacco. Tuttavia la satira ottenne
l’effetto desiderato. Smosse il sovrano dalla sua apatia, e lo lanciò lungo la
folle china della rivoluzione.
Dal 29
ottobre al 27 novembre fu concessa tutta una serie di riforme amministrative e
civili: un magistrato di cassazione, l’abolizione di certe giurisdizioni
speciali, trasferimento dal militare al civile delle funzioni di polizia; libertà di stampa, con censura preventiva da
parte di commissioni provinciali. Queste concessioni erano accompagnate dal
solito ‘spontaneo’ entusiasmo popolare. S’illuminano le vie della Capitale “con
illuminazione spontanea, combinata prima” dice D’Azeglio, tra il serio e il
faceto; si cantavano solenni Te Deum,; s’indicono processioni con fiori e
bandiere; si tallonano il sovrano ovunque vada con simili festose accoglienze.
Carlo
Alberto, però, pur sempre geloso delle sovrane prerogative, pensava di
bilanciarle con le pretese liberali, senza cedere nella sostanza i suoi diritti
regali. I settari non tardarono a cogliere l’intimo accorgimento del Sovrano e
si diedero da fare per eludere il pericolo. A questo fine adoperarono
quell’arma che il Re con tanta leggerezza aveva loro posto in mano: la libertà di stampa.
Nacquero in
un battibaleno vari giornali liberali, che annoveravano tra i direttori e i
collaboratoti, il fior fiore dei rivoluzionari piemontesi: L’Opinione
era diretta da Giacomo Durando e Giovanni Lanza;
In questo
clima, sul finire di quell’anno, a Genova le cose presero un andamento più
vorticoso. I mazziniani, che vi erano numerosi, sia tra il popolo, che tra il
ceto aristocratico, volevano più audaci riforme, per il nuovo anno: amnistia,
guardia civica e diminuzione del presso del sale. Poiché non furono esauditi,
si cercò un capro espiatorio, e fu presto trovato: i Gesuiti! Era loro la colpa
se la monarchia non si decideva a venire davvero incontro ai bisogni del
popolo.
Così i
seguaci di mazzini organizzarono
all’inizio del 1848 un’imponente manifestazione contro i gesuiti genovesi. Volevano incendiare
la casa della Compagnia di gesù e
il Palazzo Tursi, che faceva da collegio. Il governatore della città, conte
Palliacciu della Planaria, che aveva ricevuto ordine d’essere conciliante con i
dimostranti, ottenne, tramite i buoni uffici della Società de’ moderatori,
di tramutare la manifestazione di protesta in una pubblica sottoscrizione, che
chiedeva la cacciata dei Gesuiti e l’istituzione della guardia civica. Il 7
gennaio una deputazione partì per Torino. Il Re tuttavia non la volle ricevere
e consigliò ai deputati di tornarsene a casa.
L’arrivo dei
deputati genovesi, però, mise in fibrillazione i liberali della capitale.
Quella sera stessa si riunirono. Volevano che l’iniziativa non cadesse nel vuoto.
Fu Cavour che pronunciò la fatidica parola: si doveva chiedere
19. Carlo Alberto si fa Re
costituzionale (febbraio-marzo 1848)
Quel consesso d’aristocratici, giornalisti, borghesi,
studiosi, riuniti in assemblea, sapeva molto di Costituente. Carlo Alberto,
stretto tra la pubblica soddisfazione per i cedimenti, e le rispettose minacce
dei settari per le sue impuntature, credeva forse ancora di riuscire a guidare
gli eventi.
coll’anno
nuovo gli eventi precipitarono. Le trame settarie si fecero più fitte e il
momento dell’azione si avvicinava a gran giornate. Gioberti ottenne che Mazzini
e i suoi non intralciassero con avventate iniziative il corso fatale degli eventi.
Massimo D’Azeglio riprese la girandola di peregrinazioni da un capo all’altro
dell’Italia Centrosettentrionale.
Nel regno
di Napoli tutto era pronto. Il 12 gennaio si ebbe la prima scintilla che diede
fuoco alle polveri con l’insurrezione di Palermo. A gran voce i settari
meridionali chiedevano, anzi esigevano, una Costituzione.
Il Re di Sardegna, però, non del tutto
consapevole su quale polveriera era seduto, credeva ancora d’essere in grado di
controllare la situazione. Il due gennaio 1848, scrivendo al Granduca di
Toscana, suo cognato, diceva di volere “una forma di governo, nella quale il
popolo abbia tutta quella libertà ch’è possibile colla conservazione delle basi
della monarchia.”[lxiii]
Il 20 di quello stesso mese ribadiva la stessa idea al marchese Roberto
D’Azeglio, che ricorda: “E insistendo su tali idee, eretto della persona, e
fissando lo sguardo sul suo interlocutore: Marchese D’Azeglio– disse il Re
– voglio come voi la libertà dell’Italia, ed è per questo, ricordatevelo
bene, che io non concederò mai una costituzione al mio popolo.”[lxiv]
Mai parole, forse, furono smentite tanto radicalmente e in così breve tempo.
Il 1° febbraio, dodici giorni dopo quel
colloquio, giunse a Torino la notizia che a Napoli Re Ferdinando aveva concesso
Il giorno dopo, 2 febbraio, l’inviato
britannico, Sir Abercombry, ebbe un abboccamento col ministro degli Esteri, San
Marzano, consigliandolo sulla necessità di dare uno Statuto: “il temporeggiare comprometterebbe
l’autorità del re e la repressione condurrebbe probabilmente ad un conflitto
fra il governo ed il popolo.”[lxv]
Quel medesimo giorno i ministri di Carlo
Alberto si riunirono in conferenza per considerare i consigli inglesi, e
decisero all’unanimità che, stante la situazione in ebollizione, era meglio
convincere il Re a concedere uno Statuto.
Il 3 febbraio comunicarono al Re il
loro parere. Tutti ribadirono, seppure con qualche distinguo l’opportunità
della Costituzione. Si decise che Carlo Alberto ne avrebbe discusso assieme ai
ministri nella seduta del 7 febbraio 1848.
Intanto, i rivoluzionari, i vari Cavour,
D’Azeglio, Santa Rosa, ecc. erano informati di tutto quello che accadeva, dai loro
amici a corte. Per questo, fu indetto una riunione del Consiglio comunale di
Torino per il 5 febbraio, ma anziché trattare della petizione per
ottenere
20. La giornata del 7
febbraio 1848
Il giorno sette febbraio 1848 si riunì nella
reggia la solenne conferenza, che avrebbe dovuto decisero la concessione o meno
della Costituzione. Vi presero parte tutti i Ministri e altri dieci importanti
personaggi politici, tra i quali spiccava il vecchio Conte De
Dopo un breve intervento introduttivo del
Sovrano, alle nove del mattino, furono sentiti i pareri dei convenuti. Il De
La riunione era ancora in corso, quando, alle
quattro e mezza, giunse, come da copione, la delegazione comunale per chiedere
Allora la conferenza si sciolse, per riunirsi
alle nove. Si continuò a discutere sugli articoli della novella Costituzione
fino a notte alta.
21. La giornata dell’8
febbraio 1848
I settari (Cavour, Brofferio, Durando Santa Rosa)
intanto, che attendevano con sempre maggior impazienza la nuova tanto attesa,
riunitisi la mattina dell’8 febbraio, deliberarono di attuare un’ulteriore pressione
sulla debole corte. Stabilirono di avvisare i ministri dei pericoli a cui il
paese sarebbe andato incontro “con mezzane concessioni e tiepidi provvedimenti”.[lxx]
Giunse proprio allora a Torino un dispaccio del Governatore di Genova che dichiarava
che non esservi più altro rimedio, per tener buona la piazza, che dichiarando
lo stato d’assedio o
Qualche giorno fu speso per raffazzonare gli
84 articoli che lo componevano. Il 4 marzo fu solennemente promulgato e
il 24, il giorno successivo all’entrata in guerra, senza alcuna
dichiarazione, contro l’Austria, proclamato legge fondamentale del Regno di
Sardegna.
La rivoluzione aveva vinto.
[i] La genesi dello Statuto. Studio storico,
in “
[ii] Le
‘Cospirazioni romane’ di Emilio Cerro,
in “
[iii] Trosiéme èdition,
Paris, Plon, 1861, vol. II, p. 135.
[iv] Ivi, pp. 106-107.
[v] Primo Ministro del Re di Sardegna.
[vi] Le
‘Cospirazioni romane’…, p. 573.
[vii] G. Briano, Vita di Roberto d’Azeglio,
Torino, Unione tipografico-editrice, 1861, pp. 27-28.
[viii] Le
‘Cospirazioni romane’…, p. 574.
[ix] Lo Statuto e il giuramento di carlo Alberto, in “
[x] Lo Statuto e il giuramento…, p. 268.
[xi] Lo Statuto e il giuramento…, pp.
269-270.
[xii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 276.
[xiii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 526.
[xiv] La
massoneria, ecco il nemico: cioè l’Enciclica Humanum genus, in “
[xv] Lo Statuto e il giuramento…, p. 527.
[xvi] Lo Statuto e il giuramento…, p. 527.
[xvii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 529.
[xviii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 530.
[xix] Lo Statuto e il giuramento…, p. 531.
[xx] Lo Statuto e il giuramento…, p. 532.
[xxi] Lo Statuto e il giuramento…, pp.
532-533.
[xxii] Lo Statuto e il giuramento…, pp.
533-534.
[xxiii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 534.
[xxiv] Lo Statuto e il giuramento…, pp. 535-36
[xxv] Lo Statuto e il giuramento…, p. 536.
[xxvi] Lo Statuto e il giuramento…, p. 537.
[xxvii] Lo
Statuto e il giuramento…, p. 541.
[xxviii] Lo
Statuto e il giuramento…, p. 542.
[xxix] Lo
Statuto e il giuramento…, pp. 543-544.
[xxx] Lo
Statuto e il giuramento…, vol.III, p. 43.
[xxxi] Lo
Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 45.
[xxxii] Lo
Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 48.
[xxxiii] Lo
Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 49-51.
[xxxiv] Lo
Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 51.
[xxxv] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, pp. 8-9.
[xxxvi] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 11.
[xxxvii] C.
Solaro de
[xxxviii] C.
Solaro de
[xxxix] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 15.
[xl] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, pp. 20-22.
[xli]
Predari, I primi vagiti della libertà italiana in Piemonte, Milano,
1861, p. 39-40.
[xlii] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 289.
[xliii]
Predari, I primi vagiti della libertà…, p. 66.
[xliv]
Predari, I primi vagiti della libertà…, p. 68.
[xlv] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 290.
[xlvi] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 290.
[xlvii] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 290.
[xlviii] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 291.
[xlix] Vol.
I, p. 55.
[l] M. D’Azeglio, I
miei ricordi, Firenze, A, Croce, 1881, pp. 479-480.
[li] Lettera
dell’Avv, Enrico Cornero, in Archivio triennale delle cose d’Italia,
II, p. XIX.
[lii] C.
Solaro de
[liii] N.
Bianchi, Curiosità e ricerche, puntata XII, p. 754.
[liv] C.
Solaro de
[lv] C.
Solaro de
[lvi]
Sclopis, Storia della legislazione italiana, III, 332, citato in La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 303.
[lvii] La causa nazionale negli anni 1847-48-49.
Ricordi storici, in “
[lviii]
Citato in La causa nazionale…, vol. IV, p. 669.
[lix] La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 304.
[lx]
Sclopis, Storia della legislazione italiana, III, 333, citato in La
genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 304.
[lxi] C.
Solaro de
[lxii] M.
D’Azeglio e Pantaloni, Carteggio inedito, lettera del 22 ottobre 1847,
p. 175, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p.
527-528.
[lxiii] N.
Bianchi, Storia della diplomazia europea, V, 90, citato in La genesi
dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 534.
[lxiv]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 534.
[lxv]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 536.
[lxvi]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 671.
[lxvii]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 671.
[lxviii]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 672.
[lxix]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 673.
[lxx]
Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 674.